I suicidi da Seneca a Elvire Audray hanno un elemento comune

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 13 giugno 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Un incontro di riflessione e discussione dei nostri soci su questo argomento ha avuto luogo lo scorso lunedì, prendendo le mosse dall’analisi di cause in grado di sopprimere la forza naturale più potente nel nostro sistema nervoso centrale: l’istinto di sopravvivenza. Nel nostro organismo tutta l’organizzazione funzionale, dalla bioenergetica della più periferica cellula dell’epidermide all’organizzazione dei circuiti cerebrali alla base del comportamento, segue i principi di un piano ottimizzato in ogni istante allo scopo di preservare la vita e favorire le priorità proprie della fase e della circostanza, come accade nel resto del regno animale. La stessa apoptosi fisiologica – la morte cellulare programmata – agisce come un meccanismo selettivo a vantaggio dell’organismo nel suo insieme.

Un fenomeno tanto paradossale, perché insensato e antitetico rispetto alle ragioni del corpo dell’essere, non ha equivalenti tra i mammiferi e non può che spiegarsi con le peculiarità dei nostri processi psichici, che possono sottrarci al controllo omeostatico rendendoci liberi di agire in deroga ai principi biologici. Si ritiene che sia la possibilità – convenzionalmente definita neocorticale – di manipolare con la cognizione culturale, e in particolare col pensiero ideologico, virtualmente ogni contenuto mentale, che esponga la nostra specie al rischio di agire così radicalmente contro la natura da annullarne il principio essenziale della vita che agisce per la vita.

Infatti, se si escludono tutti i casi dovuti a disturbi psicopatologici gravi o a danni cerebrali diretti, si deve ritenere che anche negli stati di depressione reattiva alle peggiori esperienze esistenziali, perché si contempli la possibilità di agire contro sé stessi, deve operare un processo mentale distruttore della pulsione naturale per eccellenza. E ciò è particolarmente vero quando non si è in uno stato cerebrale di implosione o di minore energia neuropsichica, come accade in molti stati di sofferenza morale, ma si è in una condizione di equilibrio e si decide di darsi la morte per distruggere degli obiettivi militari o la vita di tante altre persone, come nel caso dei kamikaze giapponesi e degli attentatori suicidi islamici. Anche se in quei casi – si può osservare – la decisione, pur se non condizionata dall’insopportabile sofferenza di vivere, non si può considerare frutto di una libera scelta, perché deve essere stato rilevante il ruolo dell’addestramento alla morte mediante un indottrinamento autoritario, che in genere configura un vero e proprio plagio mentale. In tale ipotesi, il funzionamento psichico può considerarsi psicopatologico.

Il suicidio di Seneca, il cui pensiero per saggezza e rispetto degli altri è stato accostato a quello cristiano, rappresenta il prototipo del “suicidio filosofico”, dettato da ragioni politiche e, apparentemente, non associato ad uno stato psicologico o psicopatologico condizionante. Come prototipo, rappresenta la categoria in cui la disgraziata decisione è caratterizzata da volontarietà deliberata e indipendente. In realtà, e questo vale per ogni decisione rilevante nel contesto umano, è molto difficile tracciare i limiti dell’indipendenza di giudizio e volizione, e stabilire quanto ciò che appare come una semplice influenza possa invece essere vissuto come un obbligo o una coercizione.

Negli anni Ottanta, presso l’Istituto di Clinica Psichiatrica della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli Federico II diretto dal Presidente della Società Italiana di Psichiatria, professore Franco Rinaldi, si tenne uno studio sul suicidio che adottò un’articolata classificazione che andava dal suicidio politico a quello depressivo, ma che, superando la concezione delle categorie, affrontò forse per la prima volta in Italia il problema di un elemento neurofunzionale comune, anticipando di trent’anni gli studi di neuroimmagine funzionale.

Si sviluppò la distinzione, simile a quella criminologica per l’omicidio, fra suicidio d’impeto e suicidio a lungo premeditato, considerando il differente sostrato mentale discriminante per l’attribuzione di significato; si introdusse anche la nuova categoria clinica della “depressione da successo”, già studiata in divi di Hollywood e grandi manager internazionali che, dopo aver vissuto esclusivamente per lo scopo del successo, raggiunto l’obiettivo non trovavano più senso nella vita.

In quegli anni, in cui si suicidò Alighiero Noschese, destando stupore perché il suicidio non era contemplato nella sua realtà culturale di provenienza, si tendeva ad affinare la distinzione diagnostica fra i tre tipi di tentato suicidio più comuni: 1) la simulazione a scopo di ricatto affettivo o per ottenere attenzione e considerazione pubblica, senza alcuna intenzione di correre il rischio di morire davvero; 2) il tentativo “isterico”, ossia con un’intenzione di vantaggio secondario, ma attuato con uno stato di coscienza disposto ad accettare il rischio che l’azione dimostrativa potesse divenire una “punizione più severa” per la persona alla quale era diretta la rappresentazione della propria infelicità estrema; 3) il tentativo fallito solo per cause intercorrenti, impreviste e indipendenti dalla volontà del soggetto, generalmente affetto da un disturbo psicopatologico grave.

In epoca successiva è stata analizzata da vari gruppi di studio e di ricerca la differenza fra la persistente ideazione suicidaria associata a disturbi depressivi e l’impulso acuto all’azione suicidaria. Il presidente della nostra società scientifica in passato ha seguito e trattato numerosi pazienti suicidari, desumendo questa convinzione: “Nella mia esperienza nessuno voleva suicidarsi in assoluto, ossia nessuno rifiutava la vita in quanto tale, ma tutti non sopportavano più il dolore di esistere. Non volevano quella vita.

La maggior parte era andata oltre la disperazione, giungendo in uno stato di “morte nella vita” nel quale si sentiva già fuori dell’esistenza e incapace di andare avanti. In ogni caso, eliminando il fattore principale di stress acuto o facendo mutare le condizioni che rendevano la vita impossibile e le risorse del paziente insufficienti ad affrontare le difficoltà, cadeva il proposito. In una minoranza di casi era evidente uno stato acuto di sofferenza cerebrale: assunzione di sostanze psicotrope d’abuso o misuso di farmaci avevano alterato funzioni di base del cervello necessarie alla normale espressione del senso di sé e di ciò che chiamiamo fisiologia della coscienza[1].

Si è discusso il caso particolare di Bruno Bettelheim di cui ci siamo occupati in passato con un articolo che ha destato molto interesse: anche se avvenuto in condizioni di alterata coscienza per l’assunzione di alcool e farmaci che gli dessero il coraggio di serrare la testa in un sacchetto di plastica per asfissiarsi, Bettelheim aveva pianificato freddamente il gesto dopo un bilancio della sua vita. Aveva costruito scientificamente il suo personaggio di esperto di psicologia e pedagogia dell’infanzia per rendersi intoccabile e, nella sua Scuola Ortogenica di Chicago, poter perpetrare impunemente crimini legati alla sua pedofilia: un libro che denunciava tutti gli orrori, scritto dal fratello di una delle vittime, aveva innescato la reazione[2].

Dall’intersezione fra analisi psichiatriche e sociologiche si desumono due profili interessanti: la violenza autodiretta determinata prevalentemente da fattori legati al soggetto e quella in massima parte dovuta a fattori ambientali, come nel caso delle sette sataniche.

Il collegamento con il satanismo non è solo una spiegazione sociologica di eventi criminologici circoscritti, ma ha una radice culturale nella ribellione contro il senso positivo attribuito alla vita quale dono divino dalla tradizione giudaico-cristiana, secondo cui “Dio ha fatto tutto per la vita” e il demonio è stato “omicida fin da principio”. In particolare, un insegnamento reso attuale dai credenti in Cristo ad ogni generazione, da duemila anni, consiste nella natura divina dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio e consacrato dal sangue del sacrificio redentivo: non solo agire contro l’altro, come Caino, ma anche levar la mano contro sé equivale a colpire nel corpo il Signore, come illustrato con forza icastica dall’equivalenza compiuta da San Paolo per condannare la fornicazione: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo per farne le membra di una prostituta?”[3]

Anche se gli omicidi e l’induzione al suicidio come offerta al potere dell’Anticristo riguardano spesso persone descritte come deboli, influenzabili e accondiscendenti, vi sono molti casi in cui la coercizione criminale e il plagio mentale sono stati esercitati su persone che, prima di aderire alla setta, apparivano sane di mente e con una autonomia decisionale nella norma.

Per comprendere come avvenga il superamento della barriera ad agire contro di sé, assicurata dalla naturale fisiologia cerebrale, è sempre opportuno considerare lo stato mentale in cui si trova la persona.

Sicuramente affetto da disturbi psicopatologici di impronta depressiva, era stato il cantante ventottenne Luigi Tenco che, eliminato da una gara canora, dopo aver scritto un biglietto per spiegare il gesto estremo, si puntò la sua Walther PPK alla tempia e pose fine alla sua vita[4]. Il corpo fu trovato dalla cantante Dalida che, molti anni dopo, lo emulò. Tenco era rimasto impressionato dal tentato suicidio dell’ex-amico Gino Paoli, che si era sparato un colpo al petto ma non era morto perché il proiettile si era arrestato tra mediastino e pericardio, dove è ancora conficcato.

Colpisce sempre il numero delle persone del mondo dello spettacolo che si è tolto la vita, anche se in molti casi la tossicomania è stata causa diretta o indiretta dell’atto fatale, come nel caso di quel musicista rock precipitato nel vuoto perché in preda ad allucinosi credeva di poter volare, o dell’altro che, dopo un eccesso di droghe e alcool, morì a letto soffocato nel proprio vomito. Non fu così, come erroneamente si disse, per l’attrice istriana Laura Antonaz nota come Laura Antonelli che, lasciata la cocaina, era da tempo dedita a opere caritatevoli, quando morì per un infarto del miocardio[5].

Dal lungo elenco internazionale delle personalità dello spettacolo ne sono state estratte solo alcune, per le quali si disponeva di informazioni sufficienti per discutere la plausibilità, le ipotetiche dinamiche e il ruolo delle circostanze: Marylin Monroe, Luigi Vannucchi, Francesco De Rosa, Mario Monicelli e Robin Williams.

Di Marylin Monroe (1962) si è discussa particolarmente la costante esperienza “depersonalizzante” vissuta nell’interpretare uno stereotipo di donna superficiale e incline a compiacere gli uomini, lontana dal suo naturale stile psico-adattativo che l’aveva portata a raccogliere i suoi pensieri in appunti dai quali sperava di trarre un saggio. Le informazioni presentate all’incontro, e tratte da biografie e studi di psicologia condotti su quel materiale, non sono sufficienti per supportare con plausibilità l’ipotesi del suicidio.

Il suicidio forse accidentale, per un eccesso di barbiturici e alcool, di Luigi Vannucchi (1978) che fu attore teatrale, televisivo, interpretando il primo sceneggiato di fantascienza italiano (A Come Andromeda), e cinematografico, impersonando Alcide De Gasperi, è molto diverso da quello dell’attore napoletano Francesco de Rosa (2004) che, da anni, viveva profonde crisi depressive ed esistenziali per mancanza di lavoro. Era caduto nel dimenticatoio dopo un inizio cinematografico intenso e promettente, in cui recitò accanto a Bud Spencer, con Proietti e Montesano, poi con Paolo Villaggio e tre anni più tardi caratterizzò un venditore di bare a rate in Così Parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo. Un’intensa sofferenza depressiva e difficoltà materiali avevano inciso profondamente sulla sua salute mentale, e non fu sufficiente nel 2004 l’inclusione nel cast del film La Passione di Cristo di Mel Gibson per scongiurare il suicidio che avvenne nel dicembre di quello stesso anno nella sua casa di Perugia[6].

Menzionando, più sopra, il suicidio del padre nobile degli imitatori italiani, Alighiero Noschese, si è accennato alla provenienza da un ambiente culturale che non contemplava il togliersi la vita: il già citato studio degli anni Ottanta, aveva individuato nella realtà tradizionale di Napoli, dai tempi del Viaggio in Italia di Goethe al ventesimo secolo, almeno due elementi socio-antropologici protettivi: un popolo che nel cimento quotidiano col problema di soddisfare i bisogni elementari rafforzava tanto il senso di identità quanto la voglia di vivere, e un ceto nobile dalle profonde radici cristiane, costantemente impegnato in opere di solidarietà, soccorso e diffusione dei valori della fede.

In una realtà sociale che presumeva la solidarietà morale generata da un sentimento di empatia umana quale connotato identitario di un popolo, era costume diffuso il ricorso alla “mozione dei sentimenti” per avere aiuto, supporto o sostegno, rivolgendo all’interlocutore prima blandizie, attestazioni di stima o tributi d’affetto, e poi, per ottenere quanto richiesto, una minaccia in maniera velata o manifesta di togliersi la vita, per rimarcare l’assoluto bisogno, ma senza alcuna reale intenzione di attuarla. Questo stile comunicativo[7] è perfettamente reso in un vecchio film di Dino Risi, in cui una Sofia Loren nel ruolo di pescivendola, per ottenere che Vittorio De Sica nei panni del proprietario della casa in cui vive in affitto non la costringa a traslocare, gli porta in dono del pesce, lo lusinga con una serie di complimenti e, infine, rappresentandogli l’assoluta necessità, dice: “Don Antò, non mi portate alla disperazione, che io suicido me stessa!”[8].

Mario Monicelli (2010) aveva 95 anni: era stato fra i maggiori registi italiani e soffriva di depressione involutiva. Aveva già dichiarato l’insano proposito in un’intervista televisiva a Gigi Marzullo.

Robin Williams (2014), approdato al piccolo schermo italiano con la serie Mork & Mindy, era un attore, mimo, imitatore e improvvisatore formidabile, protagonista di una lunga serie di film di successo, fra cui L’attimo fuggente, Risvegli, Mrs Doubtfire. Sembrava in possesso di straordinarie risorse psico-adattative, ma la dipendenza dalla cocaina lo aveva indebolito e destabilizzato, aggravando il disturbo bipolare di cui soffriva. Presente alla serata durante la quale morì il suo amico John Belushi per overdose, contribuì economicamente all’assistenza di un altro suo grande amico divenuto tetraplegico: Christopher Reeve. Si sottopose a interventi cardiochirurgici alla valvola mitrale e a una valvola aortica; gli fu poi diagnosticata una demenza a corpi di Lewy, una patologia neurodegenerativa che gli procurava frequenti allucinazioni. Si ritiene si sia suicidato ma, sebbene la diagnosi medico-legale ritenesse compatibile i reperti con quelli di un decesso per asfissia autoindotta, sulle circostanze della morte e sul mezzo impiegato furono comunicate ai media due versioni contrastanti.

La bellezza elegante del viso conferiva allo sguardo intenso di Elvire Audray (2000) un potere di suggestione profondo, che la rendeva indimenticabile e le avrebbe dovuto consentire di ottenere ruoli ben più importanti di quelli avuti nel genere horror, nei film comici di evasione, in quelli di stile erotico o nelle serie televisive. Una particolare attenzione è stata rivolta al caso di questa attrice francese nota in Italia come la suora svedese di Rimini Rimini, la valletta di Fantastico 89 con Enrico Montesano e Anna Oxa, o la conduttrice con Fabio Fazio di Fate il vostro gioco, perché da quanto si conosce della sua vita si desume una condotta inconsapevolmente distruttiva del valore di identità, accanto ad una mancata costruzione quotidiana di senso.

È noto che quell’equilibrio interiore che genera l’energia psichica necessaria alla vita quotidiana, identificata dalle discipline psicologiche di impronta psicodinamica con la forza dell’Io, è in stretto rapporto col senso di identità, che generalmente si nutre in due condizioni auspicabilmente in equilibrio fra loro: 1) l’esperienza individuale di sé stessi e 2) l’esperienza di sé nella relazione con gli altri. Quando l’esperienza individuale appare alla coscienza come un’armonica gestione del rapporto fra attualità contingente e realizzazione di un modello, e l’esperienza di relazione si svolge alla giusta distanza affettiva, con un efficace equilibrio di scambio e una vicinanza prossima all’identità fra l’idea che si ha di sé stessi e l’immagine di sé percepita e restituita dagli altri, si accresce la stabilità della personalità e la forza dell’Io.

La costanza di un simile regime, in condizioni ottimali, innesca circoli virtuosi che contribuiscono al conferimento delle risorse necessarie a gestire le frustrazioni quotidiane, le difficoltà di relazione, i disturbi psicofisici, le inevitabili crisi, i traumi e tutto ciò che ordinariamente scuote la nostra esistenza. Senza un simile esercizio o, peggio, come nel caso di Elvire Audray, adottando stili di esistenza che indeboliscono i processi interiori a sostegno dell’identità e non esercitano le funzioni psico-adattative secondo il proprio stile di personalità, si rischia di perdere sé stessi alla prima reazione depressiva che porti alla coscienza il vuoto di una prassi esistenziale che non costruisce quotidianamente senso.

Costretta, per guadagnare e rimanere nel giro, o a recitare il ruolo della ragazzina sprovveduta e poco perspicace o a ricalcare stereotipi appartenenti a generi cinematografici di bassa lega sottoculturale, non poteva essere sé stessa durante il lavoro e, per varie circostanze ed eventi, non poteva esserlo nemmeno nella rimanente vita di relazione. Il suo corpo, volto compreso, era costantemente scisso dall’identità: violentato e torturato all’estremo dell’umanamente sopportabile, anche per il più incallito spettatore delle perversioni del grande schermo, come nel film Schiave bianche: violenza in Amazzonia, usato come oggetto di piacere nel genere erotico, impiegato per generare contrasto fra il suo aspetto angelico e l’esposizione di interiora e altri articoli del campionario horror, venduto nudo come poster in edicola, inserito in innumerevoli produzioni e programmi televisivi per aumentare l’audience.

Al Seminario sull’Arte del Vivere abbiamo analizzato la tesi morale di Immanuel Kant, secondo cui l’uomo non deve mai essere un mezzo ma sempre un fine, prima alla luce della sua Antropologia Pragmatica e poi in rapporto alla realtà psico-adattativa del soggetto. Ebbene, lo studio ci ha portato a rilevare che la strumentalizzazione della persona arreca sempre un danno: dalla semplice frustrazione ad effetti disadattanti. In ogni caso, costituisce una forma di reificazione, ossia di degradazione di un soggetto ad oggetto, che può compiersi impunemente solo nel gioco, nella finzione, se bene accetta e di breve durata. Da qui si potrebbe sviluppare una lunga elaborazione, senz’altro più articolata di quella consentita dal tempo previsto per l’incontro dello scorso lunedì, ma ci limitiamo ad osservare che questo aspetto della vita della Audray deve aver avuto una parte considerevole nel causare quella grave forma di disturbo depressivo che si ritiene l’abbia portata al suicidio all’età di quarant’anni, nel 2000.

Alla discussione è stata poi proposta l’angolazione prospettica del suicidio politico, considerando anche in questa chiave Seneca, oltre ad altri casi storici, ma, esaurite le considerazioni sui documenti del racconto relativo alla fine di Lucio Anneo, si è rilevata l’insufficienza di dati per azzardare ipotesi sui rapporti tra convinzioni ideologiche e stato mentale dei singoli. Si è anche osservato che una buona parte dei suicidi per ragioni politiche o giudiziarie delle epoche successive, come hanno spesso dimostrato le indagini criminologiche e le analisi storiche, deve essere derubricata a omicidio. E in numerosi casi del Novecento, anche quando non si è giunti a dimostrare con certezza l’assassinio, la plausibilità del suicidio è rimasta molto bassa[9].

Infine, il nostro presidente ha provato a dedurre dalla ricerca neuroscientifica un tratto necessariamente presente nella base neurofunzionale dell’assetto cerebrale suicidario, ossia il correlato della condizione che annulla le risposte considerate espressione dell’istinto di conservazione. Qui di seguito si riporta una sintesi concettuale.

L’elemento comune è costituito dal mancato funzionamento, al momento in cui si agisce contro sé stessi, di quella rete neuronica che garantisce il rispetto di sé grazie a un programma genetico essenziale e indispensabile all’affermazione di ogni specie animale sulla terra. Per inattivare questo programma non è sufficiente l’iperfunzione dei sistemi dello stress che caratterizza i disturbi ansiosi acuti e cronici, e non bastano le alterazioni neurofunzionali che caratterizzano la maggior parte dei disturbi psichiatrici. È necessario che vi sia o una compromissione globale del funzionamento dell’encefalo o un’azione mirata volta a neutralizzare gli effetti dell’attività strutturale di questa rete sulla coscienza e sul comportamento.

Alla categoria dell’alterazione globale appartengono tutti gli stati psicopatologici che si accompagnano a deterioramento grave e diffuso del cervello, così come gli effetti delle sostanze tossiche e psicotrope d’abuso in dosi capaci di alterare anche la neurofisiologia omeostatica di base; oltre che, naturalmente, gli psicodislettici quali LSD (dietilammide dell’acido lisergico), mescalina, psilocibina e tutte le altre molecole simili di nuova sintesi, in dosi allucinogene. Alla categoria dell’azione mirata appartengono quegli apprendimenti cognitivi che alterano il rapporto naturale, inconsapevole e profondo, fra la componente autoprotettiva della funzionalità biologica di base e la sua elaborazione cosciente.

 

L’autore della nota ringrazia il presidente, prof. Giuseppe Perrella, per il contributo al testo e la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza, e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-13 giugno 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] G. Perrella, Psicopatologia della reazione suicidaria. (relazione all’incontro del 23 marzo) BM&L-Italia, Firenze 2003.

[2] Note e Notizie 18-07-03 La terribile verità su Bruno Bettelheim.

[3] Prima Lettera ai Corinzi: 6, 15.

[4] Tenco aveva scoperto nella commissione del Festival di Sanremo del 1967 collegamenti con la massoneria ed altri poteri illegali e aveva dichiarato di voler denunciare ogni cosa. Lui stesso aveva riferito due settimane prima della morte che era stato vittima di un tentativo di omicidio a Santa Margherita Ligure: era stato inseguito e speronato da due auto che lo avevano mandato fuori strada. L’autopsia, eseguita quasi 40 anni dopo, nel 2006, ha potuto stabilire solo la compatibilità dei fori con un colpo sparato a contatto della tempia, e non - come si è detto - che sicuramente si sia trattato di suicidio. La presenza di troppi indizi suicidari sulla scena del crimine, fra cui una scatola svuotata del barbiturico Pronax e tracce di consumo di superalcolici, non convinse all’epoca i suoi parenti. Tenco ebbe una lunga telefonata con la fidanzata Valeria alla quale rivelò di avere un elenco – mai ritrovato – dei corrotti e il proposito di denunciarli; avevano appuntamento per l’indomani, per partire insieme per una vacanza in Kenya. Circa un’ora dopo fu trovato il corpo, con un biglietto la cui grafia fu ritenuta autografa dalla perizia, ma il cui contenuto era quanto meno paradossale.

[5] Laura Antonaz, nata a Pola in Istria (Croazia) e trasferita da piccola a Napoli dove studiò diplomandosi all’ISEF, dopo il successo cinematografico cominciò ad assumere cocaina e, per questo, ebbe una condanna penale; con la depenalizzazione del consumo fu definitivamente assolta e, ritrovata la fede, visse con impegno i valori cristiani, condannando la sua vita passata, che definì diseducativa per i giovani. Morì nella sua casa di Ladispoli nel 2015.

[6] In realtà, la famiglia dichiarò questa causa della morte solo nel febbraio 2005.

[7] Quanto era rimasto al livello popolare della retorica insegnata per secoli nella città: captatio benevolentiae seguita da argomentazioni capaci di commuovere.

[8] Il film è Pane, Amore e… del 1955.

[9] Si pensi a Gabriele Cagliari e Raul Gardini: quando diventarono pericolosi testimoni, a breve distanza l’uno dall’altro, furono trovati morti. In particolare, Raoul Gardini si sarebbe sparato alla tempia, ma i colpi mortali erano due e la pistola gli era stata posta nella mano sbagliata.