I suicidi da Seneca a Elvire Audray hanno un elemento comune
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 13 giugno 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Un incontro di riflessione e discussione dei nostri
soci su questo argomento ha avuto luogo lo scorso lunedì, prendendo le mosse dall’analisi
di cause in grado di sopprimere la forza naturale più potente nel nostro
sistema nervoso centrale: l’istinto di sopravvivenza. Nel nostro organismo tutta
l’organizzazione funzionale, dalla bioenergetica della più periferica cellula
dell’epidermide all’organizzazione dei circuiti cerebrali alla base del
comportamento, segue i principi di un piano ottimizzato in ogni istante allo
scopo di preservare la vita e favorire le priorità proprie della fase e della
circostanza, come accade nel resto del regno animale. La stessa apoptosi
fisiologica – la morte cellulare programmata – agisce come un meccanismo
selettivo a vantaggio dell’organismo nel suo insieme.
Un fenomeno tanto paradossale, perché insensato e
antitetico rispetto alle ragioni del corpo dell’essere, non ha
equivalenti tra i mammiferi e non può che spiegarsi con le peculiarità dei
nostri processi psichici, che possono sottrarci al controllo omeostatico
rendendoci liberi di agire in deroga ai principi biologici. Si ritiene che sia
la possibilità – convenzionalmente definita neocorticale – di manipolare con la
cognizione culturale, e in particolare col pensiero ideologico, virtualmente
ogni contenuto mentale, che esponga la nostra specie al rischio di agire così
radicalmente contro la natura da annullarne il principio essenziale della vita
che agisce per la vita.
Infatti, se si escludono tutti i casi dovuti a
disturbi psicopatologici gravi o a danni cerebrali diretti, si deve ritenere
che anche negli stati di depressione reattiva alle peggiori esperienze
esistenziali, perché si contempli la possibilità di agire contro sé stessi,
deve operare un processo mentale distruttore della pulsione naturale per
eccellenza. E ciò è particolarmente vero quando non si è in uno stato cerebrale
di implosione o di minore energia neuropsichica, come accade in molti stati di
sofferenza morale, ma si è in una condizione di equilibrio e si decide di darsi
la morte per distruggere degli obiettivi militari o la vita di tante altre
persone, come nel caso dei kamikaze giapponesi e degli attentatori
suicidi islamici. Anche se in quei casi – si può osservare – la decisione, pur
se non condizionata dall’insopportabile sofferenza di vivere, non si può
considerare frutto di una libera scelta, perché deve essere stato rilevante il
ruolo dell’addestramento alla morte mediante un indottrinamento autoritario,
che in genere configura un vero e proprio plagio mentale. In tale ipotesi,
il funzionamento psichico può considerarsi psicopatologico.
Il suicidio di Seneca, il cui pensiero per saggezza
e rispetto degli altri è stato accostato a quello cristiano, rappresenta il prototipo
del “suicidio filosofico”, dettato da ragioni politiche e, apparentemente, non
associato ad uno stato psicologico o psicopatologico condizionante. Come prototipo,
rappresenta la categoria in cui la disgraziata decisione è caratterizzata da
volontarietà deliberata e indipendente. In realtà, e questo vale per ogni
decisione rilevante nel contesto umano, è molto difficile tracciare i limiti
dell’indipendenza di giudizio e volizione, e stabilire quanto ciò che appare
come una semplice influenza possa invece essere vissuto come un obbligo o una
coercizione.
Negli anni Ottanta, presso l’Istituto di Clinica
Psichiatrica della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli Federico II
diretto dal Presidente della Società Italiana di Psichiatria, professore Franco
Rinaldi, si tenne uno studio sul suicidio che adottò un’articolata classificazione
che andava dal suicidio politico a quello depressivo, ma che, superando la
concezione delle categorie, affrontò forse per la prima volta in Italia il problema
di un elemento neurofunzionale comune, anticipando di trent’anni gli studi di
neuroimmagine funzionale.
Si sviluppò la distinzione, simile a quella criminologica
per l’omicidio, fra suicidio d’impeto e suicidio a lungo premeditato,
considerando il differente sostrato mentale discriminante per l’attribuzione di
significato; si introdusse anche la nuova categoria clinica della “depressione
da successo”, già studiata in divi di Hollywood e grandi manager
internazionali che, dopo aver vissuto esclusivamente per lo scopo del successo,
raggiunto l’obiettivo non trovavano più senso nella vita.
In quegli anni, in cui si suicidò Alighiero
Noschese, destando stupore perché il suicidio non era contemplato nella sua
realtà culturale di provenienza, si tendeva ad affinare la distinzione
diagnostica fra i tre tipi di tentato suicidio più comuni: 1) la simulazione
a scopo di ricatto affettivo o per ottenere attenzione e considerazione
pubblica, senza alcuna intenzione di correre il rischio di morire davvero; 2)
il tentativo “isterico”, ossia con un’intenzione di vantaggio secondario,
ma attuato con uno stato di coscienza disposto ad accettare il rischio che l’azione
dimostrativa potesse divenire una “punizione più severa” per la persona alla
quale era diretta la rappresentazione della propria infelicità estrema; 3) il
tentativo fallito solo per cause intercorrenti, impreviste e indipendenti dalla
volontà del soggetto, generalmente affetto da un disturbo psicopatologico
grave.
In epoca successiva è stata analizzata da vari
gruppi di studio e di ricerca la differenza fra la persistente ideazione
suicidaria associata a disturbi depressivi e l’impulso acuto all’azione suicidaria.
Il presidente della nostra società scientifica in passato ha seguito e trattato
numerosi pazienti suicidari, desumendo questa convinzione: “Nella mia
esperienza nessuno voleva suicidarsi in assoluto, ossia nessuno rifiutava la
vita in quanto tale, ma tutti non sopportavano più il dolore di esistere. Non
volevano quella vita.
La maggior parte era andata oltre la disperazione,
giungendo in uno stato di “morte nella vita” nel quale si sentiva già fuori
dell’esistenza e incapace di andare avanti. In ogni caso, eliminando il fattore
principale di stress acuto o facendo mutare le condizioni che rendevano
la vita impossibile e le risorse del paziente insufficienti ad affrontare le
difficoltà, cadeva il proposito. In una minoranza di casi era evidente uno stato
acuto di sofferenza cerebrale: assunzione di sostanze psicotrope d’abuso o misuso
di farmaci avevano alterato funzioni di base del cervello necessarie alla normale
espressione del senso di sé e di ciò che chiamiamo fisiologia della
coscienza”[1].
Si è discusso il caso particolare di Bruno
Bettelheim di cui ci siamo occupati in passato con un articolo che ha destato
molto interesse: anche se avvenuto in condizioni di alterata coscienza per l’assunzione
di alcool e farmaci che gli dessero il coraggio di serrare la testa in un
sacchetto di plastica per asfissiarsi, Bettelheim aveva pianificato freddamente
il gesto dopo un bilancio della sua vita. Aveva costruito scientificamente il
suo personaggio di esperto di psicologia e pedagogia dell’infanzia per rendersi
intoccabile e, nella sua Scuola Ortogenica di Chicago, poter perpetrare
impunemente crimini legati alla sua pedofilia: un libro che denunciava tutti gli
orrori, scritto dal fratello di una delle vittime, aveva innescato la reazione[2].
Dall’intersezione fra analisi psichiatriche e
sociologiche si desumono due profili interessanti: la violenza autodiretta
determinata prevalentemente da fattori legati al soggetto e quella in massima
parte dovuta a fattori ambientali, come nel caso delle sette sataniche.
Il collegamento con il satanismo non è solo una
spiegazione sociologica di eventi criminologici circoscritti, ma ha una radice
culturale nella ribellione contro il senso positivo attribuito alla vita quale dono
divino dalla tradizione giudaico-cristiana, secondo cui “Dio ha fatto tutto
per la vita” e il demonio è stato “omicida fin da principio”. In particolare, un
insegnamento reso attuale dai credenti in Cristo ad ogni generazione, da
duemila anni, consiste nella natura divina dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza
di Dio e consacrato dal sangue del sacrificio redentivo: non solo agire contro
l’altro, come Caino, ma anche levar la mano contro sé equivale a colpire
nel corpo il Signore, come illustrato con forza icastica dall’equivalenza compiuta
da San Paolo per condannare la fornicazione: “Non sapete che i vostri corpi
sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo per farne le membra
di una prostituta?”[3]
Anche se gli omicidi e l’induzione al suicidio
come offerta al potere dell’Anticristo riguardano spesso persone descritte come
deboli, influenzabili e accondiscendenti, vi sono molti casi in cui la
coercizione criminale e il plagio mentale sono stati esercitati su persone che,
prima di aderire alla setta, apparivano sane di mente e con una autonomia
decisionale nella norma.
Per comprendere come avvenga il superamento della
barriera ad agire contro di sé, assicurata dalla naturale fisiologia cerebrale,
è sempre opportuno considerare lo stato mentale in cui si trova la persona.
Sicuramente affetto da disturbi psicopatologici
di impronta depressiva, era stato il cantante ventottenne Luigi Tenco che,
eliminato da una gara canora, dopo aver scritto un biglietto per spiegare il
gesto estremo, si puntò la sua Walther PPK alla tempia e pose fine alla sua vita[4]. Il corpo
fu trovato dalla cantante Dalida che, molti anni dopo, lo emulò. Tenco era
rimasto impressionato dal tentato suicidio dell’ex-amico Gino Paoli, che si era
sparato un colpo al petto ma non era morto perché il proiettile si era
arrestato tra mediastino e pericardio, dove è ancora conficcato.
Colpisce sempre il numero delle persone del mondo
dello spettacolo che si è tolto la vita, anche se in molti casi la tossicomania
è stata causa diretta o indiretta dell’atto fatale, come nel caso di quel musicista
rock precipitato nel vuoto perché in preda ad allucinosi credeva di
poter volare, o dell’altro che, dopo un eccesso di droghe e alcool, morì a
letto soffocato nel proprio vomito. Non fu così, come erroneamente si disse,
per l’attrice istriana Laura Antonaz nota come Laura Antonelli che, lasciata la
cocaina, era da tempo dedita a opere caritatevoli, quando morì per un infarto
del miocardio[5].
Dal lungo elenco internazionale delle personalità
dello spettacolo ne sono state estratte solo alcune, per le quali si disponeva di
informazioni sufficienti per discutere la plausibilità, le ipotetiche dinamiche
e il ruolo delle circostanze: Marylin Monroe, Luigi Vannucchi, Francesco De
Rosa, Mario Monicelli e Robin Williams.
Di Marylin Monroe (1962) si è discussa particolarmente
la costante esperienza “depersonalizzante” vissuta nell’interpretare uno
stereotipo di donna superficiale e incline a compiacere gli uomini, lontana dal
suo naturale stile psico-adattativo che l’aveva portata a raccogliere i suoi
pensieri in appunti dai quali sperava di trarre un saggio. Le informazioni presentate
all’incontro, e tratte da biografie e studi di psicologia condotti su quel
materiale, non sono sufficienti per supportare con plausibilità l’ipotesi del
suicidio.
Il suicidio forse accidentale, per un eccesso di barbiturici
e alcool, di Luigi Vannucchi (1978) che fu attore teatrale, televisivo,
interpretando il primo sceneggiato di fantascienza italiano (A Come
Andromeda), e cinematografico, impersonando Alcide De Gasperi, è molto diverso
da quello dell’attore napoletano Francesco de Rosa (2004) che, da anni, viveva
profonde crisi depressive ed esistenziali per mancanza di lavoro. Era caduto nel
dimenticatoio dopo un inizio cinematografico intenso e promettente, in cui
recitò accanto a Bud Spencer, con Proietti e Montesano, poi con Paolo Villaggio
e tre anni più tardi caratterizzò un venditore di bare a rate in Così Parlò
Bellavista di Luciano De Crescenzo. Un’intensa sofferenza depressiva e
difficoltà materiali avevano inciso profondamente sulla sua salute mentale, e
non fu sufficiente nel 2004 l’inclusione nel cast del film La Passione di
Cristo di Mel Gibson per scongiurare il suicidio che avvenne nel dicembre
di quello stesso anno nella sua casa di Perugia[6].
Menzionando, più sopra, il suicidio del padre
nobile degli imitatori italiani, Alighiero Noschese, si è accennato alla
provenienza da un ambiente culturale che non contemplava il togliersi la vita: il
già citato studio degli anni Ottanta, aveva individuato nella realtà tradizionale
di Napoli, dai tempi del Viaggio in Italia di Goethe al ventesimo
secolo, almeno due elementi socio-antropologici protettivi: un popolo che nel
cimento quotidiano col problema di soddisfare i bisogni elementari rafforzava tanto
il senso di identità quanto la voglia di vivere, e un ceto nobile dalle
profonde radici cristiane, costantemente impegnato in opere di solidarietà,
soccorso e diffusione dei valori della fede.
In una realtà sociale che presumeva la
solidarietà morale generata da un sentimento di empatia umana quale connotato identitario
di un popolo, era costume diffuso il ricorso alla “mozione dei sentimenti” per
avere aiuto, supporto o sostegno, rivolgendo all’interlocutore prima blandizie,
attestazioni di stima o tributi d’affetto, e poi, per ottenere quanto richiesto,
una minaccia in maniera velata o manifesta di togliersi la vita, per rimarcare
l’assoluto bisogno, ma senza alcuna reale intenzione di attuarla. Questo stile
comunicativo[7] è
perfettamente reso in un vecchio film di Dino Risi, in cui una Sofia Loren nel
ruolo di pescivendola, per ottenere che Vittorio De Sica nei panni del proprietario
della casa in cui vive in affitto non la costringa a traslocare, gli porta in
dono del pesce, lo lusinga con una serie di complimenti e, infine, rappresentandogli
l’assoluta necessità, dice: “Don Antò, non mi portate alla disperazione, che io
suicido me stessa!”[8].
Mario Monicelli (2010) aveva 95 anni: era stato
fra i maggiori registi italiani e soffriva di depressione involutiva. Aveva già
dichiarato l’insano proposito in un’intervista televisiva a Gigi Marzullo.
Robin Williams (2014), approdato al piccolo
schermo italiano con la serie Mork & Mindy, era un attore, mimo,
imitatore e improvvisatore formidabile, protagonista di una lunga serie di film
di successo, fra cui L’attimo fuggente, Risvegli, Mrs
Doubtfire. Sembrava in possesso di straordinarie risorse psico-adattative,
ma la dipendenza dalla cocaina lo aveva indebolito e destabilizzato, aggravando
il disturbo bipolare di cui soffriva. Presente alla serata durante la
quale morì il suo amico John Belushi per overdose, contribuì economicamente all’assistenza
di un altro suo grande amico divenuto tetraplegico: Christopher Reeve. Si
sottopose a interventi cardiochirurgici alla valvola mitrale e a una valvola
aortica; gli fu poi diagnosticata una demenza a corpi di Lewy, una
patologia neurodegenerativa che gli procurava frequenti allucinazioni. Si
ritiene si sia suicidato ma, sebbene la diagnosi medico-legale ritenesse
compatibile i reperti con quelli di un decesso per asfissia autoindotta, sulle
circostanze della morte e sul mezzo impiegato furono comunicate ai media due
versioni contrastanti.
La bellezza elegante del viso conferiva allo
sguardo intenso di Elvire Audray (2000) un potere di suggestione profondo, che
la rendeva indimenticabile e le avrebbe dovuto consentire di ottenere ruoli ben
più importanti di quelli avuti nel genere horror, nei film comici di
evasione, in quelli di stile erotico o nelle serie televisive. Una particolare
attenzione è stata rivolta al caso di questa attrice francese nota in Italia
come la suora svedese di Rimini Rimini, la valletta di Fantastico 89
con Enrico Montesano e Anna Oxa, o la conduttrice con Fabio Fazio di Fate il
vostro gioco, perché da quanto si conosce della sua vita si desume una
condotta inconsapevolmente distruttiva del valore di identità, accanto ad una
mancata costruzione quotidiana di senso.
È noto che quell’equilibrio interiore che genera
l’energia psichica necessaria alla vita quotidiana, identificata dalle
discipline psicologiche di impronta psicodinamica con la forza dell’Io, è in
stretto rapporto col senso di identità, che generalmente si nutre in due
condizioni auspicabilmente in equilibrio fra loro: 1) l’esperienza individuale di
sé stessi e 2) l’esperienza di sé nella relazione con gli altri. Quando l’esperienza
individuale appare alla coscienza come un’armonica gestione del rapporto fra attualità
contingente e realizzazione di un modello, e l’esperienza di relazione si
svolge alla giusta distanza affettiva, con un efficace equilibrio di scambio e
una vicinanza prossima all’identità fra l’idea che si ha di sé stessi e l’immagine
di sé percepita e restituita dagli altri, si accresce la stabilità della
personalità e la forza dell’Io.
La costanza di un simile regime, in condizioni
ottimali, innesca circoli virtuosi che contribuiscono al conferimento delle
risorse necessarie a gestire le frustrazioni quotidiane, le difficoltà di
relazione, i disturbi psicofisici, le inevitabili crisi, i traumi e tutto ciò
che ordinariamente scuote la nostra esistenza. Senza un simile esercizio o, peggio,
come nel caso di Elvire Audray, adottando stili di esistenza che indeboliscono
i processi interiori a sostegno dell’identità e non esercitano le funzioni
psico-adattative secondo il proprio stile di personalità, si rischia di perdere
sé stessi alla prima reazione depressiva che porti alla coscienza il vuoto di
una prassi esistenziale che non costruisce quotidianamente senso.
Costretta, per guadagnare e rimanere nel giro, o a
recitare il ruolo della ragazzina sprovveduta e poco perspicace o a ricalcare
stereotipi appartenenti a generi cinematografici di bassa lega sottoculturale, non
poteva essere sé stessa durante il lavoro e, per varie circostanze ed eventi,
non poteva esserlo nemmeno nella rimanente vita di relazione. Il suo corpo,
volto compreso, era costantemente scisso dall’identità: violentato e torturato
all’estremo dell’umanamente sopportabile, anche per il più incallito spettatore
delle perversioni del grande schermo, come nel film Schiave bianche:
violenza in Amazzonia, usato come oggetto di piacere nel genere erotico,
impiegato per generare contrasto fra il suo aspetto angelico e l’esposizione di
interiora e altri articoli del campionario horror, venduto nudo come poster
in edicola, inserito in innumerevoli produzioni e programmi televisivi per
aumentare l’audience.
Al Seminario sull’Arte del Vivere abbiamo analizzato
la tesi morale di Immanuel Kant, secondo cui l’uomo non deve mai essere un
mezzo ma sempre un fine, prima alla luce della sua Antropologia
Pragmatica e poi in rapporto alla realtà psico-adattativa del soggetto. Ebbene,
lo studio ci ha portato a rilevare che la strumentalizzazione della persona arreca
sempre un danno: dalla semplice frustrazione ad effetti disadattanti. In ogni
caso, costituisce una forma di reificazione, ossia di degradazione di un
soggetto ad oggetto, che può compiersi impunemente solo nel gioco, nella
finzione, se bene accetta e di breve durata. Da qui si potrebbe sviluppare una
lunga elaborazione, senz’altro più articolata di quella consentita dal tempo
previsto per l’incontro dello scorso lunedì, ma ci limitiamo ad osservare che questo
aspetto della vita della Audray deve aver avuto una parte considerevole nel causare
quella grave forma di disturbo depressivo che si ritiene l’abbia portata al
suicidio all’età di quarant’anni, nel 2000.
Alla discussione è stata poi proposta l’angolazione
prospettica del suicidio politico, considerando anche in questa chiave Seneca, oltre
ad altri casi storici, ma, esaurite le considerazioni sui documenti del racconto
relativo alla fine di Lucio Anneo, si è rilevata l’insufficienza di dati per
azzardare ipotesi sui rapporti tra convinzioni ideologiche e stato mentale dei
singoli. Si è anche osservato che una buona parte dei suicidi per ragioni politiche
o giudiziarie delle epoche successive, come hanno spesso dimostrato le indagini
criminologiche e le analisi storiche, deve essere derubricata a omicidio. E in
numerosi casi del Novecento, anche quando non si è giunti a dimostrare con
certezza l’assassinio, la plausibilità del suicidio è rimasta molto bassa[9].
Infine, il nostro presidente ha provato a dedurre
dalla ricerca neuroscientifica un tratto necessariamente presente nella base
neurofunzionale dell’assetto cerebrale suicidario, ossia il correlato della
condizione che annulla le risposte considerate espressione dell’istinto di
conservazione. Qui di seguito si riporta una sintesi concettuale.
L’elemento comune è costituito dal mancato
funzionamento, al momento in cui si agisce contro sé stessi, di quella rete
neuronica che garantisce il rispetto di sé grazie a un programma genetico essenziale
e indispensabile all’affermazione di ogni specie animale sulla terra. Per
inattivare questo programma non è sufficiente l’iperfunzione dei sistemi dello stress
che caratterizza i disturbi ansiosi acuti e cronici, e non bastano le
alterazioni neurofunzionali che caratterizzano la maggior parte dei disturbi psichiatrici.
È necessario che vi sia o una compromissione globale del funzionamento
dell’encefalo o un’azione mirata volta a neutralizzare gli effetti dell’attività
strutturale di questa rete sulla coscienza e sul comportamento.
Alla categoria dell’alterazione globale
appartengono tutti gli stati psicopatologici che si accompagnano a deterioramento
grave e diffuso del cervello, così come gli effetti delle sostanze
tossiche e psicotrope d’abuso in dosi capaci di alterare anche la neurofisiologia
omeostatica di base; oltre che, naturalmente, gli psicodislettici
quali LSD (dietilammide dell’acido lisergico), mescalina, psilocibina e tutte
le altre molecole simili di nuova sintesi, in dosi allucinogene. Alla categoria
dell’azione mirata appartengono quegli apprendimenti cognitivi che
alterano il rapporto naturale, inconsapevole e profondo, fra la componente autoprotettiva
della funzionalità biologica di base e la sua elaborazione cosciente.
L’autore della
nota ringrazia il
presidente, prof. Giuseppe Perrella, per il contributo al testo e la dottoressa
Isabella Floriani per la correzione della bozza, e invita alla
lettura degli
scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-13 giugno 2020
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] G. Perrella, Psicopatologia della reazione
suicidaria. (relazione all’incontro del 23 marzo) BM&L-Italia, Firenze 2003.
[2] Note e Notizie 18-07-03 La
terribile verità su Bruno Bettelheim.
[3] Prima Lettera ai Corinzi:
6, 15.
[4] Tenco aveva scoperto nella
commissione del Festival di Sanremo del 1967 collegamenti con la massoneria ed
altri poteri illegali e aveva dichiarato di voler denunciare ogni cosa. Lui
stesso aveva riferito due settimane prima della morte che era stato vittima di
un tentativo di omicidio a Santa Margherita Ligure: era stato inseguito e speronato
da due auto che lo avevano mandato fuori strada. L’autopsia, eseguita quasi 40
anni dopo, nel 2006, ha potuto stabilire solo la compatibilità dei fori con un
colpo sparato a contatto della tempia, e non - come si è detto - che
sicuramente si sia trattato di suicidio. La presenza di troppi indizi suicidari
sulla scena del crimine, fra cui una scatola svuotata del barbiturico Pronax e
tracce di consumo di superalcolici, non convinse all’epoca i suoi parenti. Tenco
ebbe una lunga telefonata con la fidanzata Valeria alla quale rivelò di avere
un elenco – mai ritrovato – dei corrotti e il proposito di denunciarli; avevano
appuntamento per l’indomani, per partire insieme per una vacanza in Kenya. Circa
un’ora dopo fu trovato il corpo, con un biglietto la cui grafia fu ritenuta
autografa dalla perizia, ma il cui contenuto era quanto meno paradossale.
[5] Laura Antonaz, nata a Pola in
Istria (Croazia) e trasferita da piccola a Napoli dove studiò diplomandosi all’ISEF,
dopo il successo cinematografico cominciò ad assumere cocaina e, per questo, ebbe
una condanna penale; con la depenalizzazione del consumo fu definitivamente assolta
e, ritrovata la fede, visse con impegno i valori cristiani, condannando la sua vita
passata, che definì diseducativa per i giovani. Morì nella sua casa di
Ladispoli nel 2015.
[6] In realtà, la famiglia dichiarò
questa causa della morte solo nel febbraio 2005.
[7] Quanto era rimasto al livello
popolare della retorica insegnata per secoli nella città: captatio
benevolentiae seguita da argomentazioni capaci di commuovere.
[8] Il film è Pane, Amore e…
del 1955.
[9] Si pensi a Gabriele Cagliari e
Raul Gardini: quando diventarono pericolosi testimoni, a breve distanza l’uno
dall’altro, furono trovati morti. In particolare, Raoul Gardini si sarebbe
sparato alla tempia, ma i colpi mortali erano due e la pistola gli era stata
posta nella mano sbagliata.